l'appeso


(racconto) l'era dell'arieteda un sogno

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  1. Uro
     
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    L'era dell'Ariete

    03:45 AM, Pola: un lampo illumina la città a giorno.
    Apro gli occhi. Un latrato accompagna il gesto, una sirena. Cerco di ricordare. Abbiamo una condotta da seguire in questi casi: dieci minuti dall'allarme per levarsi in piedi, sciacquare occhi e bocca, cercare la maschera, azionare la valvola dell'ossigeno. Oddio, quasi non riconosco la mia immagine nello specchio. È buio, sono giorni che manca la corrente. Arranco alcuni attimi, trovo la maschera, stringo i lacci sulla nuca rasata — qui i pidocchi regolano l'estetica. Inizio a contare: uno, due, e la sirena s'arresta. Traggo un respiro e dalla valvola non passa aria, ma il dubbio.
    Le dita si riavvicinano alle fibbie dei lacci, stavolta tremano. Qualcosa non torna nello scorrere del tempo, ne ho sempre avuto il sospetto ma adesso ne ho la certezza. Non è un epoca buona per nascere e neppure per morire. È abitudine crepare male. Certo, questa sembra una costante in molti luoghi e per molte tempi, ma vale particolarmente nei nostri. Ci è piaciuto affidare l'ascia del boia ai più microscopici tirapiedi, indubbiamente bravi nel loro lavoro, eccelsi. E abbiamo pensato bene di riscoprire sopite differenze, gli uni dagli altri, e le istituzioni che un tempo avevamo creato hanno iniziato a procreare, per meiosi, e da una nacquero molte, ognuna delle quali aveva qualcosa da recriminare alle altre. Va da sé, che anche nello sperduto fondo dell'Adriatico ci fossero poche ragioni per dormire tranquilli.
    Eppure lo stavo facendo, forse troppo o nel momento meno opportuno. Sento passi e brusii, la città è desta. La sirena ha urlato veramente, non era anch'essa un sogno da cui non temere nulla. Esco dalla baracca che chiamo casa. Davanti a me l'accampamento degli sfollati — il Blocco 47 — poco più d'un ammasso di tende strappate circondato da una rete metallica, l'unico oggetto integro da queste parti. Dentro, oltre un centinaio di derelitti: i sopravvissuti di eventi tragici, di luoghi ancor più sfortunati, i salvati dall'abisso che va inghiottendoci. Ma in ogni caso loro sono i miei derelitti. Mi avvicino al cancello che li separa dal mondo, col suo robusto catenaccio, unica ragione della mia presenza e fonte del pane quotidiano. Prima che la chiave penetri nella fessura rugginosa scorgo sagome farsi appresso con passo incerto. Riconosco Ilija da Karlovac, la vecchia albanese, zoppa dalla nascita, e uno dei sette figli di Misha; degli altri percepisco solo la massa confusa e borbottante.
    «Capo, che cosa è successo?» La voce di Ilija si mescola allo sferragliare del catenaccio. «Perché strillavano le sirene? — aggiunse la zoppa — Cos'era quel lampo nel cielo?». Accosto appena il cancello prima di rispondere: «Non ho idea di cosa sia accaduto, probabilmente è stata solo l'ennesima esercitazione». Passo lo sguardo lentamente su ognuno cercando di distinguerne il volto nella fitta oscurità. Dentro di me tengo un conto così da arrivare per esclusione a tutti coloro che non riesco a riconoscere. Quarantasette, quarantasette uomini simili a bestie stipati in appena dieci metri quadrati. Ripensando alla mia baracca perdo ogni pietà: «Avete indossato tutti la maschera per tempo?», «Certamente Capo — irrompe uno dei figli di Misha con rara sicurezza — la sirena ha suonato per ore».
    «Per ore?», le parole si strozzano in gola, si trasformano in un verso rauco, nessuno le intende. Percepisco lo sguardo appannarsi, le ginocchia cedono ma, per un singolare concorso di pesi e contrappesi, resto ritto. Involontariamente, o per un residuo senso di sopravvivenza, interrompo i contatti con l'esterno: una cortina di silenzio mi isola. Non riesco a sentire altro che un crescente calore alla bocca dello stomaco. Vedo labbra muoversi. Una mano insicura si poggia sulla mia spalla. So che c'è ma non posso avvertirla coi sensi. Si fanno appresso: «Capo, si sente bene?», «Ha bisogno di bere un po' d'acqua? È così pallido». Non intendo e non rispondo, riesco appena a muovere lo sguardo sui loro volti e, poi, da lì in alto: le sagome acquistano una propria individualità; le stelle, singolare dono di quest'era cupa, sembrano allontanarsi fino a svanire; il cielo orientale si fa blu; sta per sorgere, invitto e bruciante, un nuovo sole su Pola.
    L'attrazione è finita, il gruppo si disperde quasi tediato dalle mie risposte mancate, Ilija volge le spalle memore del sonno interrotto, la vecchia zoppica più lontano, distinguo tutti i sette figli di Misha — il più giovane ancora in grembo alla madre. Allora resto piantato davanti al cancello, quasi statuetta di piombo fusa col terreno messo a base. Dovrei vedere un dottore. Eppure, mentre sono pervaso da un tale sussulto di volontà, una ragione indipendente e inattesa m'impone d'indugiare: se l'irrompere del giorno da un lato ha spinto quarantasei sfollati verso le loro precedenti attività, dall'altro pare aver destato in una minuta figura un inespresso interesse. Una ragazza non più giovane, o almeno così credo scorgendone del corpo solo i lunghi e profondi occhi, si avvicina tenendo piantato lo sguardo sul mio cereo volto come fosse un chiodo su cui fare perno. La chiamavano la chiromante, la maga, e nessuno sapeva con certezza da dove venisse. Ho sentito parlare di Mostar, Pristina, o addirittura di un remoto paese al di là degli stretti. Ma poco importa adesso e, come altre volte in passato, quegli occhi m'inchiodano alla loro contemplazione. «C'è qualcosa che vuoi dirmi», le sue parole trapassano il velo, esili, appena distinguibili eppure chiare e inequivocabili. «Niente — rispondo, anche se non si tratta di una domanda — devo andare». Per prima cosa abbasso il capo, mi volto e, chiudendo il cancello alle spalle, m'illudo di poterle sfuggire. Strapparmi via dal suo sguardo mi lacera il respiro come fosse carne.
    Allungo il passo scorrendo accanto alla mia baracca senza accorgermene. Conosco un medico nel quartiere, abita in una casa vera, di quelle dai muri dritti e fatti di mattoni, al terzo piano di un palazzo dove vivono nell'agio e nel conforto alcuni degli ultimi fortunati di questa infelice città. Le gambe tremano, sento prudere il petto — dicono che il primo sintomo sia la nausea, stati allucinatori che si fanno sempre più frequenti e, infine, una dolorosa paralisi che parte dalle ginocchia per carpire tutto il corpo. Almeno così ho sentito a proposito delle ultime trovate in materia di violenza organizzata. La percezione m'inganna, e questo non posso prenderlo come un segno positivo. Salgo le scale del palazzo mentre i palmi delle mani si bagnano di sudore. Una risata, inattesa e sincera, echeggia col mio respiro affannoso. Dei passi rapidi si susseguono, stanno scendendo, continuano a ridere; distinguo le parole di una frase senza capirne il senso: «Bin gar keine Deutsche, stamm' aus Grüneberg, echt polnisch». D'un tratto quasi mi scontro con tre ragazzine, indistinguibili tra loro e nell'età. I capelli hanno un taglio sconosciuto da queste parti, al pari delle loro vesti, nere, succinte, come mai se ne videro a Pola, e i volti sono illuminati da un divertimento di cui non posso cogliere l'origine e che mal s'adatta al cupo teatro dove avviene questo dramma. Mi fissano una a una, scorrendomi accanto, portano un filo di lana tra le mani, rosso, lo agitano, lo attorcigliano, le lega l'una all'altra come in un gioco, un capo sventola, vibra e mi sfiora passandomi vicino. Le loro risa e i loro passi s'allontanano, provo a voltarmi ma sono già svanite e, quasi senza accorgermene, mi ritrovo davanti alla porta del dottore.
    Alzando le spalle, mi scrollo di dosso l'inquietudine appena percepita. Busso, forse con poco entusiasmo. Ripeto il gesto deciso, quasi adirato. Dall'altro lato sento i complessi meccanismi della serratura mettersi faticosamente in moto. Una, due, tre volte, e il pesante uscio di legno accenna appena ad aprirsi. «Ma sei tu — esclama attraverso la fessura la voce che attendevo sentire — Non avevo idea di chi potesse essere a quest'ora del mattino». La porta si spalanca, mostrando il medico nei suoi migliori abiti da riposo, i capelli lunghi racchiusi in una coda che scendeva fin sotto le spalle, la barba ben curata e dei pesanti occhiali, atti a dimostrare il suo intelletto all'interno dell'economia facciale. «Signore, voglia scusare per il disturbo, dovrei parlarle di ciò che è successo stanotte». Risponde semplicemente aprendo il palmo della mano, invitandomi a entrare. Obbedisco.
    Mentre espongo i suddetti accadimenti, la mia attenzione è fatalmente attratta dalla mano del mio interlocutore: mai posata, senza requie agita una penna, come a scandire un tempo che, per un attimo, m'è parso essere quello delle mie stesse parole. «Quindi — m'interrompe d'un tratto — pensi d'aver indossato la maschera in ritardo?», le dita s'arrestano. Annuisco. «In ogni caso non c'è niente di cui preoccuparsi, avevo sentito nei giorni passati che era in programma un'esercitazione». «E se non fosse? — insisto con scarsa deferenza, la penna riprende a muoversi — Se veramente fosse la guerra, lo sapremmo? Senza luce, senza radio». Noto un momento d'imbarazzo tra le sue guance pasciute: «Non capisco perché tirare in ballo una prospettiva così pessimista. Inoltre la mia risposta è sì, lo sapremmo di certo», «Neppure lei ne è convinto», «Invece lo sono — nei suoi occhi ardevano tutti i dettami sociali a cui siamo educati, la mano era immobile, chiusa a pugno, stringendo la penna con forza — e tu non dovresti permetterti di mettere in dubbio la mia attendibilità e autorità quale cittadino cosciente e istruito. Se come medico ti dico che tu sei sano e abile al lavoro, e che stanotte è avvenuta soltanto un'esercitazione, è tuo dovere credermi». Taccio, cercando di scorgere qualcosa nel suo sguardo o nei suoi movimenti che possa mostrarmi le prove delle sue convinzioni. Tento ma presto desisto. Scuoto il capo in segno di remissivo assenso: «Torno al mio lavoro quindi». Ottengo il suo permesso e, mentre esco, posa la penna sul tavolo spingendo indietro, coll'indice, gli occhiali.
    L'uomo è il più grande dei propri mali. Ripercorro i passi sulle scale. Discendo, mentre l'inebriante profumo d'un sogno scivola nelle narici e penetra giù, fino allo stomaco. La strada è animata da una strana malinconia: serrande ancora ammezzate, come non ci fosse fretta d'aprire e di vendere — cosa a chi rimane da stabilirlo; un calesse avanza traballando sull'asfalto — non bestie a trainarlo, ma una torva figura, certo straniera; i pochi passanti non amano incrociare i propri sguardi, quasi lasciano che le traiettorie visive accarezzino l'altrui sagoma, la sfiorano con innocua delicatezza — questa città nasconde un segreto. L'olezzo del Blocco 47 comunica, sincero, la fine del mio cammino. Ho qualcosa da dire. Tremando, per la seconda volta spingo la chiave nella serratura, lascio scivolare il catenaccio. Nessuno sembra accorgersi del gesto o della mia improvvisa intrusione: lavorano, fingono di tenersi occupati, intrecciano canestri e lavano panni; tra loro c'è chi s'affaccenda silenzioso, come meditasse sul senso della propria azione, e c'è chi canta, quasi sottovoce, ognuno la propria melodia, condotta con sé attraverso mari e montagne, versi strappati, da quelle labbra consunte e voci stonate, al più profondo degli oblii. Mi punto sui piedi con uno scatto da caserma: «Ospiti attenti, devo portarvi un'urgente comunicazione». A dispetto della posa le parole escono deboli. Eppure raggiungono il proprio scopo: ogni moto s'arresta, le lontane canzoni sfumano fino al silenzio.
    «Questa notte la città di Pola ha subito un vile attacco da parte di una potenza straniera non ancora identificata. Natura, modalità e ora esatta del fatto restano da stabilirsi. In ogni caso, è mio precipuo dovere avvertirvi dell'imminenza del tanto atteso conflitto e ricordarvi i vostri obblighi quali ospiti del nostro generoso paese». Traggo un respiro per richiamare alla memoria le formule congrue a simili annunci. L'attesa si fa più lunga, il ricordo sfugge — l'ennesimo dei sintomi?
    «Capo, si sta prendendo gioco di noi? — Ilija da Karlovac mi fissa con aria quasi divertita — saremo ospiti ma non siamo stupidi, sappiamo tutti che la scorsa notte c'è stata solo un'esercitazione». Scorro i loro volti con gli occhi per cercare un assenso, un punto d'appiglio; insisto: «Non è stata un'esercitazione, ma il primo colpo di una nuova guerra». «E anche se fosse?— s'intromette Miklòs, profugo di Kenderes, schivo e silenzioso lavoratore — L'ennesima guerra. Da dove crede che veniamo, noi, ospiti? Cosa crede che abbiamo visto fino a ora? Allarmi, bombe, case e città in cenere, mine e ancora sirene. Ben venga quindi, ce ne andremo anche da queste tende odoranti merda, e magari lei, Capo, s'unirà a noi». Miklòs esplode in una fragorosa risata. Non muovo da lui lo sguardo, non saprei dire se i suo lazzo ha ottenuto successo o meno tra gli astanti. Potrei gridare al tradimento e servirmi di quei pochi poteri disciplinari di cui dispongo; eppure mi prendo la briga di rispondere: «Non ci saranno altri espatrii e altri campi. Se quella di stanotte è stata una bomba, se la guerra è scoppiata, e già si levano gli aeroplani, e i carri mettono in moto i cingoli, allora abbiamo le ore contate. Vedi Miklòs, non importa chi ha colpito Pola dal cielo, se Belgrado, l'Italia o qualche mongolo dal muso schiacciato, chi l'ha fatto voleva colpire i nostri alleati, non certo questo paesello sfigato. E, concesso che i nostri amici esistano ancora, risponderanno. Quindi che faranno i grassi compagni dei serbi o dei mangia-spaghetti? Basteranno allora gli ordigni chimici e le lunghe canne degli obici, oppure si decideranno a scatenare i più potenti arsenali? Credimi, stronzo ungherese, vedrai cose che non hai mai visto prima». Attendo una reazione, ma lui si limita a chinare il capo dipingendosi un ghigno corrucciato sul volto. In me so: non sono state le parole, ma l'autorità a vincere.
    «Adesso hai qualcosa da dirmi», prima della voce percepisco i chiodi sul mio petto. Mi volto, con un misto di timore e sorpresa: la chiromante venuta da chissà dove, la maga avvolta in variopinte vesti da cui escono soltanto le sue migliori lame — Надо мною, кроме твоего взгляда, не властно лзвие ни одного ножа, scrisse Vladimir. Allunga la mano, per la prima volta la vedo, aggraziata, con piccole dita cinte da anelli. Le stringo e mi lascio condurre. Alle spalle sento borbottare: «Solo con lei poteva andare», e altre frasi ingiuriose. Ignoro, guardo e passo. Segna il cammino verso una tenda più minuta delle altre. Mi invita a sedere, a stendermi. Un pavimento di stoffe e cuscini nasconde la nuda terra. La luce è soffusa e irreale, un soffio d'incenso. Lei siede al mio fianco, le gambe incrociate, le mani adorne poggiate sulle ginocchia: «Puoi parlare». Come a comando, obbedisco: «Sono stanco, confuso, è avvenuto tutto troppo in fretta e la memoria tira brutti scherzi: non ricordo, non ricordo altro oltre a questa mattina, solo immagini vaghe. Dove siamo, chi siamo, intuitivamente non manca nulla, ma sento un'opprimente mancanza di dettagli». «Sai cos'è successo questa notte?», i suoi occhi adesso sono chiusi, non li vedo ma lo sento.
    «L'inizio della fine. Per me, per tutti noi. Intorno avverto lo scricchiolare il mondo, i tremiti di un crollo. Come sulle mie ginocchia — ondivago cado col pensiero su lidi che avrei preferito aggirare— sento il male nelle vene, in bocca, sulla pelle. Come un acido ingerito che lento consuma. Sento bruciare, e pure freddo. Dovrei forse maledire i miei simili? Autori dell'arma e del gesto, i silenti collaboratori, i simpatizzanti, i severi monitori o le incaute sirene? Oppure le creature, le nazioni, che tanti lutti addussero...» La voce si trasforma in un sussurro, quasi sento un sonno simile all'abbandono percorrermi il corpo, adagiarsi sui macilenti cuscini, nella penombra di una soffice alcova che sembra assomigliare, attimo dopo attimo, ai confini del mondo.
    «Erri, in entrambi i significati del termine. Sbagli sentendoti confuso e vagando per argomenti che a stento comprendi. Indaghi le profondità del tuo corpo e quelle del tempo, ma nel tuo lento discendere credi di comprendere ma t'inganni. Non è una fine e neppure un inizio». Taccio, anche se vorrei gettarle in faccia l'artificiosità di quei motti buoni per i bambini e le fiere della domenica; non ho la forza di farlo, e lei approfitta della mia indolenza: «È l'era dell'Ariete, l'antico e nuovo principio dove pietra e sangue saranno certezze indiscusse, e bastoni, e unghie, e denti. Il corso delle cose terrestri non segue una linea, l'uomo prova a imporla, ma esso si volge in pieghe: come onde che s'accavallano su loro stesse, a volte cresce imperioso sormontando ogni cosa e a volte ricade trascinando tutto con sé. E tu, piccola molecola di questa torba corrente, ne sei finalmente consapevole testimone. Tu che hai dimenticato il passato prima d'ora, i vecchi dettagli, una volta ritenuti importanti, i luoghi, i nomi, finanche i pensieri partoriti, sei come risorto nella luce di questa notte». Riesco, pervaso da un sussulto di raziocinio, a imporre la mia visione: «Che ipocrisia chiamare resurrezione e vita questa breve miseria». Lei non si scompone, trae un lungo respiro come a trovarvi coraggio — ancora ignoro per cosa: «Non disperare e non gioire — con delicatezza si solleva il velo dal volto — adesso anche un attimo può avere il peso dell'eternità». Appoggia le sue labbra sulle mie e i nostri respiri sembrano fondersi.
    Mi scosto di scatto e aggiungo un sorriso. Tace, taccio di conseguenza. Sento ancora le ginocchia tremare, quasi non percepisco più la pianta dei piedi, e ciò nonostante mi levo eretto, scostando con forza il drappo della tenda. Il calore del sole e un soffio di vento valgono a ricordarmi l'esistenza di un mondo là fuori. Muovo i primi passi con un gesto incerto, tasto il terreno prima di poggiarci il peso. Nessuno si volta; o almeno credo, non ci presto attenzione. Apro il cancello, lo lascio spalancato alle mie spalle. Sento un impellente desiderio di correre e, incurante delle gambe incerte, mi allontano dalla malferma baracca che usavo chiamare casa. Scendo verso la Riva, passando accanto all'antico teatro; e corro, mentre lacrime innocenti solcano il viso. Supero la rocca e i moli in rovina, le maestose navi che paiono ancora lì ancorate mentre invero stanno placidamente adagiate sul fondo. Sento il rombo di aerei a reazione. Scivolo giù dove case e rovine si fanno più rade. L'ombra degli alberi allevia le ferite del sole. Tuoni in lontananza; non vedo una nuvola, è proprio una splendida giornata.
    Mi precipito in direzione del mare, della costa petrosa e solo allora vi scorgo tre esili figure, di rara ed eterea bellezza, voltate come se dovessero attendermi e ritte sull'arenile. In mano stringono un rosso filo di lana. Colei, che tra loro direi la più incantevole, impugna un coltello. Mi avvicino, rallentando il passo, esitando estasiato da tanto splendore: illumina e rincuora. Cerco di parlare ma è lei a farlo: «Da te non me lo sarei mai aspettato», eppure il suo sguardo è pervaso da un'irreale dolcezza. Rispondo con un sorriso. Taglia il filo e d'un tratto sento le ginocchia cadere. Avrei voglia di ridere, ma riesco soltanto ad accasciarmi sulla spiaggia.
    05:45 AM, Washington: il livello d'allerta passa a DEFCON 1.
     
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0 replies since 2/5/2012, 17:49   9 views
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